C’era e non c’è più, a
Roma, il gran freddo di quando ero piccola io. Ricordo i vetri di ghiaccio e
neve delle macchine nostre (la giardinetta di mia madre e l’automobile grande
di mio padre, sempre in vestito da sera) parcheggiate sul viale d’entrata, dove
verde anche d’inverno spumava la siepe che d’estate si ricamava di fioretti di
zafferano. Ricordo le pentole d’acqua bollente in danza, spandendo fiato, da
noi trasportate lungo lo stradone d’entrata; e presto, presto, che si fa tardi,
bambini, di fretta, di fretta, Santa Vergine… Mia madre a dirigere il traffico
di noi indaffarati. Versavamo l’acqua (che gran divertimento era quello!) che
bruciava, in rivoli d’inferno, i ghiaccioli a forma di stella e di luna e poi,
presto presto, uno via l’altro, tutti pigiati nel sedile di dietro: Marco e la
Sissi e io e mia sorella, per esser portati da mia madre fin sul cucuzzolo della
Trinità dei Monti lì dove si biforcan le strade che van, verso l’alto e sulla
destra, al Pincio, e giù da basso a mano manca, nel serpente silente della
Salita di San Sebastianello.
Salita, per noi, non
era. Meglio discesa e giù di corsa con le cartelle (la mia rosso porpora) a
batter sulle spalle e sul fondoschiena. Giù di corsa, nelle gote di mela,
mentre mia madre, lassù, ci seguiva con gli occhi fin sul gomito estremo che,
però, ci inghiottiva. Come poi faceva il gran portone severo dell’Istituto
Mater Dei. E il freddo, che freddo, pungeva le gambe nude, in calzettoni corti,
e anche il cuore. In cappella, con il basco sul colmo del capo, recitavamo il
Rosario, nel ritmo di Sister Francis che ci guidava nelle litanie: Turris
eburnea, Rosa mistica. Quasi dormivo nel tepore di quella piccola madre che ci
conteneva. Una mattina, dormivo davvero e quando arrivò il momento delle
genuflessioni (che si svolgevano nel corridoio, tra due ali di banchi, proprio
dirimpetto all’altare) meno male che ci fu la Bezzi a svegliarmi con una gran
gomitata e la risata toscana: “Oh Ponti, noi si va, oh tu che fai, tu resti?”
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