Quando mi reco (e lo faccio
spesso) dalle parti di Corso Trieste mi pare, scendendo lungo la via che plana serpeggiando
verso il quartiere africano di tornare in balzo agli anni Trenta, quando ogni
casa, ogni palazzo, aveva un vezzo suo, come un neo tirabaci. Poteva essere,
che so, un motto inciso sul portone o,
come al numero tal dei tali di Corso Trieste, una corona di statue candide in
testa, oppure, ancora una madonnella a mani giunte che invita alla preghiera e
alla meditazione, mentre sotto fischia il traffico indiavolato dei tutti i
giorni romani. Ogni palazzo, alto, solenne, tutto in sé, par splendere nella propria
robusta personalità. Sembra quasi, insomma, di ritrovare nell’edificio l’architetto
sposato al galantuomo, che lo vollero bello e unico e solo a quella latitudine
decorosa e un poco piemontese. Così non
si può dire, ahimè, dei palazzi moderni e contemporanei, quelli che corrono,
stretti l’uno all’altro, lungo, mettiamo, la Via Tuscolana o la Prenestina. Sono, meschini, tutti uguali, mesto ognuno, nella propria medietà suburbana
che doveva inghiottir, come ha fatto, la personalità viva degli individui, di
tutti noi. Pensavo a tutto questo, l’altro giorno, guardando fuori dal
finestrino della macchina mentre me ne correvo verso il mio destino, ma ancora
non avevo visto la nuova fermata della metropolitana di Viale Eritrea,
costruita da una grande impresa romana che firma, baldanzosa, a grandi lettere
il progetto. Oh mio Dio, io, fossi loro, un poco mi vergognerei… E mentre
guardavo in basso a tutto quel cemento e alle lamiere ritorte, mi è parso di
sentire venire dall’alto una vocina che mi chiamava in pianto. Parcheggiata la
macchina, spinti i segugi miei al cielo,
ho visto: bello, color cotto e vita, in
alto, sulla collina, il Mausoleo di Santa Costanza, che guardava avvilita dal
suo nido quella stupefacente modernità. Diciamolo tra noi, in segreto, in
sussurro alato, Costantino era un gran prepotente, imperialista, ma l'anima, nel costruire, non gli mancava...
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