Prima di passare diciotto
anni - uno dopo l’altro, come in una rivista di soldatini - nella redazione romana del Gazzettino di Venezia, che fu
per me, ora lo so, una feroce gabbia
d’oro, scrissi pezzi belli e brutti per altri quotidiani che non ci sono più; finiti, come finiti
sono i tempi in cui si celebrava il rito del proto, delle redazioni al fumo di
Londra e dell’impaginazione. Senza nostalgia, brindiamo ai tempi nuovi, dove
tutti, evviva, sono giornalisti
da casa loro, con buonapace dell’Ordine dei giornalisti il cui
presidente, con il quale ho lavorato in vicinanza per anni, si chiama Enzo ed è
un amico di quei tempi andati là…
Brindiamo, dunque, e nel
brindare, come in una visione, mi par di rivedere vivo e curvo e bianco e con
le dita adunche color zafferano di tabacco, Gianpiero Rizzon, il mio
caporedattore, veneziano di Dorsoduro, che è per me la stella, l'unica, nel firmamento di allora. A lui devo tutto, se ce n’è un pochino, il mio mestiere. Gianpiero me lo regalò,
con la generosità dei sovrani antichi, vivanda dolce e amara insieme. La prima, secondo lui, l’unica regola: scrivere di tutto, come appena usciti
dall’ovo di Blake… La lezione numero uno fu amara e basta. In un bel mattino,
baciato dagli angeli, eccomi a Palazzo Chigi a seguire la conferenza stampa di
Claudio Martelli, allora Guardasigilli, sul
pacchetto antiracket, un latinorum di provvedimenti in cui finii per ritrovarmi come al mare... Tornai, fresca di notizie, compresi i punti e virgola, tutta presa dalla materia cucinata
al tegamino. Al momento di dividere i compiti, Rizzon diede il mio pezzo a
qualcun altro. Il bagno delle donne raccolse la mia disperazione. E lui,
bussando, cortese, alla porta: “Ester, lo so che Martelli è più carino, ma c’è Cossiga
che la aspetta…”
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