Mi sono svegliata dal
torpore di un certo mio segreto languore di pensiero (che tengo mio,
abbracciato stretto come si faceva, tutti quanti, con l’orso di pezza, da piccini) in questa
dopostoria novembrina, baciata dal sole di burro fuso che sembra leccar,
sciolto nel manto suo, la via del Boschetto, dove mi reco, un giorno sì e anche
il successivo, a comperare alla Conad, piccola, piccola, foderata dal pavimento
al soffitto di prodotti, il pane e il companatico. Mi sono svegliata, dicevo,
perché la vita chiama e urla e non lascia soli mai e neanche in pace. Eccomi,
nelle ampie strade dell’Esquilino, dove non mi sembra di star nella mia Roma
dei Cesari, tutto piemontese com’è il quartiere, con i suoi viali di palazzi
imbronciati, alti fino al cielo, con quella sua bella piazza Vittorio, a
circondare un gran giardino, che mi sembra, però, ben più adatta, sotto ai suoi
portici scuri, a farsi baciare dal cielo brumoso di Torino che al sole della Capitale.
Un tempo, almeno, un gran mercato dava colore e romanità e anche un poco d’anima
alla pizza oramai muta, perduta nel via vai delle automobili…
Vabbè, il sole splende
e bisogna accontentarsi. Attraverso la piazza, sbrigate le faccende quotidiane,
per arrivar dritta al giardino, dove soggiorna una variata umanità, mescolata
dalla babele della modernità. Cammino, naso a terra, per non incontrar gli
occhi dei tanti, di tutti i colori, che mi camminano intorno. Ci sono giovani e
vecchi, ma tutti han la stessa aria ciondola, di chi non ha un bel nulla da
fare e sfoga quel niente in un ricco parlare al cellulare. Mi siedo ad
osservare un gruppo di ragazzi cino-italiani, in danza moderna, al segno di un
capopopolo che porta, al colmo del capo, un curioso berrettino, nero, piatto,
come fosse il tappo di un barattolo. Danzano e, oh perbacco, non sono niente
male, mi dico e certe ragazze, che belle, che ritmo, che sensualità! Lo sguardo
mio ondeggia tra loro e la fontana di Rutelli (non di Rutelli figlio,
beninteso, ma di suo padre che era scultore e anche di talento…), quando, d’un
tratto, una vocina mi richiama all’oggi: “A signorì, er bijetto…” La vecchina,
tanto curva e bianca che pare fatta di zucchero a velo, mi guarda e accenna col
mento alla sarabanda più in là. Sorrido, tiro fuori il mio bell’euro e lo porgo
a lei, prima che si trasformi in gatto e voli via…
Bentornata :)
RispondiEliminaRita