Un giorno d'estate, mentre percorrevamo l'orientale sarda per raggiungere la messa delle undici di San Teodoro, un fumo nero, denso come petrolio, proveniente dal cofano davanti, prese a danzarci in faccia. Spavaldo, si attorcigliava, ghignava il suo inferno e sveniva nell'aria fresca.
“Non è nulla”, disse mio padre. E continuò a guidare, incurante delle tante mani che si levavano tra i passanti, snobbando i loro occhi rotondi, le bocche a pozzo nero. Dall'alto del mio ridicolo trono, sicura del fatto di mio padre, guardavo con superiorità lo sgomento e l'affanno di tanti sconosciuti. Che caspita volevano tutti quanti, mica viaggiavamo su un elefante rosa... D'un tratto, la frenata. Rimbalzai contro il tettuccio, una capriola nel vuoto e poi atterrai tra le braccia di mia madre. Mi ritrovai faccia a faccia con un cancamini spazzacamino con la faccia cotta alla brace, e tanti sentierini intagliati nel sughero. Guardava dentro l'abitacolo con certi occhiacci da Mangiafuoco e: “Ajò, dicca, li vuol farre arrosto?”. In un baleno, tutti fuori. Senza più ordine e gerarchie.
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